Giusto il tempo di mandare giù un cicchetto di torcibudella e cominciano i combattimenti. Volteggia in aria la monetina, un quarto di dollaro per decidere chi salirà prima sul palco.
E' croce. Avanti il primo.
Ad aprire il contest ecco Ry Cooder, vecchia volpe della slide guitar. Molti di voi lo ricorderanno per la colonna sonora di «Paris, Texas», cui hanno fatto seguito le collaborazioni coi Rolling Stones e - più di recente - una trilogia sulla storia sotterranea della California. Potete giurarci amici, quel vecchio satanasso del buon vecchio Ry, mi prenda un colpo, è cieco di un occhio ma che ha la vista lunga. E sforna questo album, un concept dedicato alla crisi che attacca i banchieri («Almeno Jesse James non prendeva le case alla gente»), lesuona agli speculatori e rivendica il potere per i Nostri (il brano dal titolo «John Lee Hooker for president» è tutto un programma).
Ma passiamo agli avversari. Servirebbero tutte le botti del reggimento di stanza a Santa Fe per dissetare questi maldidos... Peste! I nostri sfidanti sono giovani, sfrontati e ridanciani. Ecco che arrivano agitando i loro guitarones e strisciando gli stivaloni sulla dannata polvere di questa terra bruciata dal sole.
Sono i Mariachi El Bronx. Fino a qualche anno fa suonavano hardcore in quel di Los Angeles, poi si sono convertiti sulla via di Tijuana e hanno preso a suonare musica mariachi, con rispetto e voglia di sperimentare. Questo è il loro secondo album (del primo disco abbiamo già parlato qui). Hanno fatto progressi e si sono ormai impadroniti del genere.
ma non dire minchiate, bauscia
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